La notte era gelida.
Il vento soffiava dalle montagne, spazzando via la neve secca, mentre i riflettori squarciavano l’oscurità con i loro raggi bianchi.
Al posto di frontiera regnava il silenzio, rotto solo dalle comunicazioni radio e dallo scricchiolio degli stivali sul terreno ghiacciato.
Finché non apparve una sagoma in lontananza.
Una donna camminava sul ciglio della strada, curva, come se portasse sulle spalle il peso del mondo.
La sciarpa svolazzava al vento, le mani stringevano qualcosa al petto: un fagotto, dei documenti, la sua vita.
Dietro di lei c’era un gruppo di profughi, ombre nel flusso di luce. Ma lei camminava da sola, più lentamente di tutti.
«Ehi! Fermatevi!» gridò qualcuno della guardia.
La lanterna la strappò dall’oscurità: un viso pallido, capelli bagnati, occhi in cui non c’era paura, solo stanchezza.
Cercò di rispondere, ma la voce le si spezzò.
E improvvisamente si fermò.
Le mani tremarono.
Le dita si aprirono.
E sotto il suo cappotto – un movimento.
Il soldato più vicino si bloccò.
Sentì un suono breve – non un grido, non un gemito. Qualcosa a metà strada tra i due.
Si precipitò in avanti, si tolse i guanti e si inginocchiò.
La donna cercava di parlare, ma le parole si perdevano nell’aria fredda.
Lui le rispose qualcosa, senza ricordare poi né le parole né la voce.
Vide solo i suoi occhi e capì che il tempo era contato.
Si allungò, senza sapere perché, solo per istinto.
Le mani, abituate alle armi, tremavano.
E in quel momento, da qualche parte in lontananza, suonò una sirena.
Alzò la testa e un riflettore li accecò entrambi: una luce intensa, neve nell’aria, respiro, e sopra tutto questo, un momento fragile, quasi sacro.
Un secondo e poi il silenzio.
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È scritta in modo realistico, cinematografico: la luce, il suono, il respiro, il freddo… tutto è tangibile.
Al centro c’è il contrasto tra la disciplina militare e la fragilità della vita umana.
Il finale è silenzioso, profondo, con una sensazione di calore in mezzo al freddo.
Non sapeva cosa fare.
Tutto stava accadendo troppo in fretta.
La donna giaceva sul terreno gelido, il respiro le usciva a fiati, il viso era pallido, le mani si aggrappavano alla ghiaia.
Cercava di dire qualcosa, in un’altra lingua, a bassa voce, con un gemito.
«Va tutto bene… tranquilla, tranquilla…» le diceva, senza credere lui stesso che quelle parole avessero alcun significato.
La neve gli sferzava il viso, il vento gli strappava il cappuccio dalla testa. Intorno regnava il caos: qualcuno chiamava un medico, qualcuno chiedeva una coperta, qualcuno se ne stava semplicemente lì, senza sapere dove guardare.
Ma nessuno si avvicinava.
Il soldato si accasciò accanto a lei.
Vide il sangue sulla neve: un contrasto netto, il rosso sul bianco.
Lei gli stringeva la mano, forte, come se ne andasse della sua vita.
Lui ricambiò la stretta.
«Ancora un po’… mi senti? Ancora un po’.»
Si tolse la giacca e la mise sotto la sua testa. Le dita si erano intorpidite, ma lui continuò: controllava il respiro, cercava di scaldarla con le mani, senza sapere perché.
E poi tutto cambiò.
Prima un grido.
Breve, acuto, vivo.
Il mondo si fermò. Anche il vento cessò per un secondo.
Lei piangeva.
Il soldato tremava.
E allora, per la prima volta in tutta la sua carriera, fece qualcosa che non aveva mai fatto prima: si tolse i guanti e allungò le braccia.
Il bambino era minuscolo, scivoloso, caldo. Non si muoveva quasi per niente. Ha solo sospirato piano quando è stato esposto all’aria fredda.
Il soldato lo ha avvolto nella sua sciarpa e lo ha stretto al petto.
Guardava non il bambino, ma il modo in cui questo piccolo miracolo respirava.
Come il vapore usciva dalle sue piccole labbra.
Come la vita iniziava proprio tra le sue mani.
Da qualche parte dietro di lui c’erano i suoi commilitoni. Uno taceva, un altro si era voltato dall’altra parte. Il terzo teneva una lanterna, e la luce tremolava perché lui stesso non riusciva a stare fermo.
Aaron, così si chiamava, improvvisamente sentì gli occhi pizzicare.
Batté le palpebre, pensando che fosse la neve, ma no, erano lacrime.
Vere.
Calde.
Non aveva pianto nemmeno al funerale di un amico. Non aveva pianto quando era al confine sotto il fuoco nemico.
Ma ora non poteva fare altrimenti.
La madre respirava.
Il bambino era vivo.
E da qualche parte, tra i riflettori, il freddo, le armi e gli ordini, per la prima volta in anni di servizio sentì che era proprio questo il motivo per cui si trovava lì.

