La serata era calda, profumata di caffè e limoni.
Il ristorante era illuminato da una luce soffusa e attraverso le grandi finestre si vedevano le persone che ridevano, brindavano e fotografavano i piatti.
Lui era in piedi all’ingresso, sistemandosi la giacca.
Voleva solo cenare. Da solo. Senza un motivo, senza compagnia, senza aspettative.
Si fermò al banco dell’amministratore e sorrise educatamente.
«Un tavolo per uno, per favore».
L’amministratore alzò lo sguardo.
Uno sguardo breve, indifferente. Un secondo per valutare, dalle scarpe al colletto.
«Mi dispiace, ma oggi siamo al completo», disse, come se sapesse già che non avrebbe ricevuto risposta.
L’uomo guardò la sala.
C’erano diversi tavoli vuoti.
«Posso aspettare», disse con calma.
«Purtroppo aspettare non servirà», rispose l’amministratore. Sorrise in modo freddo e impassibile. «Oggi abbiamo una prenotazione privata».
Lui annuì.
«Capisco».
Si allontanò e si sedette vicino alla finestra.
La cameriera passò accanto a lui e distolse rapidamente lo sguardo.
La coppia al tavolo accanto si scambiò un’occhiata.
Lui fece finta di non accorgersene.
I minuti passavano lentamente.
Guardava fuori dalla finestra, dove si rifletteva la sala piena di luci e chiacchiere,
e in mezzo a tutto questo sembrava un fotogramma che qualcuno aveva inserito per sbaglio nel film sbagliato.
Le risate al bancone lo fecero alzare lo sguardo.
Il direttore stava raccontando qualcosa a due cameriere: loro ascoltavano, sorridevano,
una si coprì persino la bocca con la mano per non ridere ad alta voce.
Capì.
Capì tutto.
Il suo petto si svuotò.
Quel silenzio era più pesante di qualsiasi rumore: era il silenzio in cui una persona sente se stessa troppo chiaramente.
Prese il telefono. Lentamente.
Guardò lo schermo.
Il riflesso del suo viso nel vetro era stanco, ma sereno.
E in quella serenità c’era qualcosa che chi era abituato a giudicare dall’apparenza non poteva capire.
Compose il numero.
Portò il telefono all’orecchio.
«Ciao. Sono io».
Pausa.
«Sì, tutto bene. È solo che qui c’è una situazione un po’… strana».
Breve silenzio.
«Sì, proprio in quel ristorante».
Parlava a bassa voce, senza rabbia.
Ma l’aria intorno sembrava essersi fatta più densa.
L’amministratore improvvisamente tacque e si voltò.
Le cameriere smisero di ridere.
La pausa rimase sospesa nell’aria come una corda.
Dietro la porta a vetri si udirono dei passi.
Pesanti, decisi.
Poi ancora il rumore della porta che si apriva.
Un uomo in abito scuro entrò nella sala.
Deciso, calmo.
Diede un’occhiata alla sala, notò colui che era seduto vicino alla finestra e si diresse subito verso di lui.
«Buonasera», disse.
«Buonasera», rispose colui che era seduto.
Nessuno capì cosa stesse succedendo finché l’amministratore non impallidì.
«Signor direttore…», sussurrò.
L’uomo che era appena entrato si voltò.
«È così che il suo personale accoglie gli ospiti?».
L’amministratore cercò di dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola.
La cameriera abbassò lo sguardo.
Tutta la sala ammutolì. Persino la musica sembrava essersi dissolta.
L’uomo vicino alla finestra si alzò semplicemente.
«Non se ne fa nulla», disse. «Volevo solo cenare».
Prese la giacca e sorrise, quasi impercettibilmente.
«Ma sembra che mi sia passato l’appetito».
Uscì senza voltarsi indietro.
La strada era silenziosa, l’aria profumava di pioggia.
Fece qualche passo e sentì la porta sbattere dietro di lui:
il direttore corse fuori e lo chiamò,
ma lui alzò solo la mano, non per offesa, ma come un uomo stanco di dover dimostrare qualcosa.
Il giorno dopo quel ristorante chiuse per «riqualificazione del personale».
E la foto dell’uomo che se ne andava la sera nella calda luce delle vetrine
fece il giro del web con la didascalia:
«La cortesia non è un segno di debolezza».

